“Vuoi venire dopo con noi in un’altra izakaya qui vicino ? Il proprietario, oltre che occuparsi del locale, fa il professore. Serve un ottimo schochu.” La proposta mi arriva da una coppia conosciuta mezz’ora prima in una izakaya di Kiyosumi-Shirakawa. Ma sì, andiamo. Era cominciato tutto una sera della settimana scorsa a Kiyosumi-Shirakawa, dall’altra parte del Sumida, un fiume che a Tokyo segna un “confine” per molti aspetti tra un di qua e un di là.
Avevo scelto di venire in questa zona di fiumi e ponti e mi ricordavo di aver visto, tempo fa, un’izakaya nel tratto che dall’uscita A2 della stazione della metropolitana conduce ai giardini Kiyosumi. Camminando avevo intravisto, al di là dei noren, una scena rilassante da izakaya: poche persone sedute, i boccali di birra e il proprietario che rideva dietro al banco.
Poche cose, semplici, quelle che cerco quando vado qualche volta, di sera, in questo genere di locale. L’izakaya era lì dove me la ricordavo, ma una volta entrato non era cominciata nel migliore dei modi. Il proprietario, infatti, un tipo con i capelli bianchi malgrado non anziano e con indosso una camicia a quadri, mi fulmina con “can you speak japanese ?”. Un po’, rispondo, prendendo posto vicino ad una coppia. Altro che birra fresca, che è ciò che arriva sempre entro i primi due minuti dall’ingresso; stasera si mette male. Invece anche quella sera è andata bene e ho conosciuto tipi interessanti. Ho letto spesso che le izakaya sarebbero i pub alla giapponese; non sono per niente d’accordo. Il pub è il pub, l’izakaya e l’izakaya.
Tempo cinque minuti dal mio ingresso nell’izakaya di Kiyosumi- Shirakawa e della coppia -lui si chiamava Takashi- alla quale mi ero seduto vicino, già sapevo di dove fossero e loro da dove venissi io. E lo stesso del signore in abito scuro, cravatta e camicia bianca, insomma la tenuta classica da sarariman, che sedeva alcuni sgabelli più in là. E dopo 15-20 minuti c’eravamo già fatti reciprocamente le foto insieme. Dopo il primo giro di birra, che serve a prendere dimestichezza con l’ambiente, è tempo di ordinare il sake. Meglio non cimentarsi subito con la scelta del sake. Takashi, sicuramente un habituè, mi chiede se mi va bene quello che stesse bevendo lui, un sake di Yamagata. Uhhh, buonissimo, e il proprietario, che nel frattempo si era sciolto non fosse altro perché avevo ordinato oltre al sake anche tonno scottato alla piastra, me l’aveva servito in un bicchiere di ceramica colmo fino all’orlo.
Il proprietario di un’izakaya si chiama tessho, ma Takashi dice di chiamare quello di questa izakaya semplicemente master; e se fosse stato una donna si sarebbe invece chiamata okami san. Tessho o okami san che sia, conservano anche le bottiglie per i clienti abituali; cioè quelle che questi hanno già pagato ma che bevono un po’ alla volta quando vanno all’izakaya. Però, come mi spiega il mio vicino di sgabello, Takashi, si può conservare una bottiglia di schochu, una bottiglia di whisky ma non quella di sake. Strano, penso, quella volta a Kobe, molti anni fa, conobbi una donna -non sono solo i sarariman a frequentare le izakaya- che mi mostrò la bottiglia di sake con sopra scritto il suo nome, che l’izakaya le teneva da parte…Tornando a Kiyosumi-Shirakawa e a Takashi, accetto l’invito della coppia di andare con loro nell’izakaya vicina, quella del professore.
Camminiamo verso Morishita: prima sulla strada principale, e fin qui ok, ma poi svoltiamo una, due, tre volte per stradine tutte uguali, poco illuminate e senza negozi, che sarebbero comunque chiusi se ci fossero data l’ora. L’unico punto di riferimento che vedo è l’inconfondibile sagoma arancione del ponte Shin Ohashi, che attraversa il fiume Sumida. Intanto siamo arrivati, la porticina che sembra essere quella di una casa è invece quella della nostra izakaya: evidentemente per i soli habituè. Siamo fortunati, dice Takashi, sta per chiudere ma possiamo ancora entrare.
La porticina introduce in un locale con un paio di tavoli e pochi sgabelli al banco, ma soprattutto mi lascia entrare nel piccolo mondo di un’altra izakaya. Quattro uomini seduti al tavolo non rispondono al mio saluto ma alzano solo la testa, un tipo al banco saluta Takashi, evidentemente si conoscevano, e la donna dietro il banco, una signora con occhiali e aspetto piuttosto elegante, non avrei mai pensato servisse birra e shochu. L’arcano è presto svelato: il professore oggi non sta bene, quindi la signora con gli occhiali è la moglie: evidentemente una okami san temporanea. Vengo a sapere che il tipo solo al banco è un cuoco di fugu, il famoso pesce che si mangia in ristoranti specializzati, uno dei miti della cucina giapponese.
Ma ecco accomodarsi al banco un’altra donna: Takashi mi dice essere una madre di due bambini, che ogni tanto viene a farsi un drink. Infatti la donna si trattiene poco, e finito quello che stava bevendo e chiuso il giornale che stava sfogliando se ne va. Siamo venuti qui per lo schochu, un distillato perlopiù di grano o orzo, e davanti a noi si materializza una bottiglia con un’etichetta scritta a mano. Ma sì, è la bottiglia di schochu che Takashi ha in questa izakaya; quante volte ti dura ?, gli chiedo. Due, massimo tre volte. Quindi significa che in due o tre volte si scola una bottiglia che ha 25° e per questo lo schochu, a differenza del sake, si beve allungato con acqua e/o ghiaccio. Stasera però lo beviamo con aggiunta di succo di limone.
Non finisco il bicchiere, perché dopo birra, sake e shochu temo, domani mattina, di svegliarmi con mal di testa (come minimo). I quattro al tavolo e il cuoco di fugu sono ancora lì, ma noi andiamo via. C’incamminiamo verso il ponte e Takashi, sempre in compagnia della donna -a proposito, mi ha detto non è la moglie-, mi dice di abitare poco prima del ponte.
Ci salutiamo, vorrei chiedergli come posso contattarlo magari la prossima volta, ma capisco essere stata la conoscenza, anzi la bevuta, di una sera e via. Attraverso il ponte, le strade sono deserte ma non ho voglia di ritirarmi se non prima di aver bevuto un caffè. Molto lungo, amaro, comprato al primo konbini che incontro. Mi siedo su una panchina del parco deserto di Hamacho e mi godo, caffè in mano, la notte di Tokyo.